Strumenti musicali anni '60 e '70

Il primo strumento musicale sul quale noi bambini degli anni ’60 mettemmo le mani fu il mitico organo Inno Hit Bontempi (o Hit Hit Bontempi), un pianetto elettrico...

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Il primo strumento musicale sul quale noi bambini degli anni ’60 mettemmo le mani fu il mitico organo Inno Hit Bontempi (o Hit Hit Bontempi), un pianetto elettrico funzionante a ventilazione d’aria tipo Pianola.

Nasce alla fine degli anni ’60, ed inizia ai piaceri della musica tantissimi ragazzi.

Era basato su un semplice ed efficace sistema a numeri: al Do corrispondeva l’1, al Re il 2, e così via fino all’ottava superiore. La numerazione riprendeva allora con 8 per il Do, 9 per il Re, ecc. Le note alterate erano contraddistinte dal segno +. Cosi`, ad esempio, 8+ voleva dire Do diesis nell’ottava centrale. Usando gli appositi spartiti della serie “Rhitmo” pubblicati dalla stessa Bontempi si doveva suonare la melodia con la mano destra, e riprodurre gli accordi con il tastierino per la mano sinistra.

Ne furono prodotte varie versioni sempre più sofisticate, dai modelli più semplici che avevano il suono di un armonium fino al modello elettronico “Pop Organ”, bianco con vistose placcature in finto alluminio.

Quest’ultimo va ricordato per la presenza di ben quattro registri (Flute, String, Vibrato e Vibrato fast) combinabili a piacere. Inutile dire che l’avvento delle tastiere elettroniche e dei computers ha confinato l’Hit Organ e il Pop Organ nel mondo dei ricordi più teneri e struggenti.

Dopo questo incominciarono a diffondersi presso i bambini più musicalmente evoluti, o quelli che avevano dei fratelli più grandi di qualche anno, i primi strumenti musicali veri, con i quali imparare a strimpellare le prime note e a coltivare sogni di una futura gloria artistica. Infatti gli anni sessanta vedono un boom nella nascita di gruppi e gruppetti più o meno professionali, di conseguenza anche l’industria degli strumenti musicali si adegua alla domanda offrendo prodotti sempre più a buon prezzo, a discapito però, talvolta, delle prestazioni.

Ecco le memorie musicali più significative.

Per le chitarre cominciano a prendere sempre più piede le chitarre solid body, ovvero realizzate in un pezzo unico (manico e corpo) e non come succedeva prima con il manico incollato o avvitato al corpo stesso. La marca più significativa è la Rickenbacker (sono le chitarre dei Beatles) che rappresenta, almeno agli inizi degli anni sessanta, la Rolls delle chitarre; forme originali e un suono unico fanno sì che queste chitarre abbiano il loro vero e proprio boom almeno fino all’avvento delle Fender (Strato, Tele, eccetera). Ci sono poi le Hofner (ditta tedesca che produceva il famoso basso a violino di Mc Cartney e che ebbe un boom di questo strumento piuttosto particolare che, finita l’era Beatles, rientrò nei ranghi. Oggi ne viene ancora costruita una versione aggiornata per i nostalgici).

Non essendo ancora giunta l’ondata Fender, Gibson e giapponesi (Aria, Yamaha, eccetera) noi bambini italiani con pochi soldi e tanta voglia di suonare ripiegammo su marche Italiane che riprendevano a volte modelli di chitarre estere più in voga: Zerosette, Eko, Welson by Galanti, Gherson sono solo alcuni nomi di tantissime aziende più o meno competitive, che costruivano chitarre e bassi di più o meno buona fattura, ma tutte sono state importanti perché hanno dato la possibilità a tutti con pochi soldi di poter dare sfogo al proprio estro ed al proprio talento anche senza essere gli Stones o i Beatles!

Verso la fine dei sixties, con l’avvento di incredibili ed innovativi chitarristi come Hendrix e Santana, prendono piede le chitarre americane Fender e Gibson, le prime molto aggressive per un sound più rozzo e pesante, le seconde con un suono più caldo e morbido (a seconda dei modelli le caratteristiche potevano comunque cambiare, infatti abbiamo modelli Fender molto più caldi e Gibson piu’ aggressivi). Queste marche domineranno quasi incontrastate anche nella decade che segue dato che l’invasione giapponese inizierà in modo lento ma graduale con marchi come Yamaha, Aria, Ibanez, eccetera, che inizialmente proposero copie di modelli americani più diffusi ma in seguito si differenziarono per una produzione molto buona a prezzi competitivi.

Nei seventies i marchi Italiani iniziano la loro lenta decadenza, alla fine resterà solo la Eko (più tanti piccoli marchi di aziende artigianali) che ancora oggi fabbrica chitarre e strumenti, ma in Estremo Oriente per contenere in conti, per cui l’originalità di tanti modelli è andata perduta.

Gli amplificatori degli anni sessanta erano sopratutto a tecnologia valvolare, ma in seguito inizia a prendere piede la circuitazione a transistor che permetterà un ingombro più contenuto senza una grossa perdita di qualità sonora. Le marche che andranno per la maggiore sono: Vox (i mitici ampli dei Beatles con la loro forma rettangolare e con la griglia degli altoparlanti in tessutino); Fender (i suoi modelli dell’epoca sono ancora ricercatissimi oggi dai chitarristi con le palle); gli italiani Cabotron, Montarbo (mitico quello a torretta con il mixer incorporato, ce ne sono in giro ancora oggi), Elka e Eko, dalle prestazioni oneste e dal prezzo molto più abbordabile.

Tra le batterie la più ambita era senz’altro la Ludwig (resa celebre da Ringo Starr dei Beatles) dai caratteristici fusti rivestiti di un materiale dal colore striato, ma andavano forte anche la Premier, la Slingerland, la Hollywood, la Gretsch (resa celebre dagli Stones). I giapponesi erano ancora assenti (la Tama, le Yamaha sono arrivate solo a partire dalla metà degli anni ’70) e gli Italiani esprimevano il loro talento percussivo su materiale più economico come la Eko o altre marche nostrane. Le pelli erano rigorosamente naturali e non sintetiche come oggi, i fusti erano di legni e materiali migliori, le meccaniche pero’ erano più pesanti e poco maneggevoli da sistemare.

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