Il programma ‘La scatola dei giochi’ con Bruno Munari

“Giocare è una cosa seria! I bambini di oggi sono gli adulti di domani, aiutiamoli a crescere liberi da stereotipi, aiutiamoli a sviluppare tutti i sensi, aiutiamoli a...

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“Giocare è una cosa seria! I bambini di oggi sono gli adulti di domani, aiutiamoli a crescere liberi da stereotipi, aiutiamoli a sviluppare tutti i sensi, aiutiamoli a diventare più sensibili. Un bambino creativo è un bambino felice!”

“Inventore, artista, scrittore, designer, architetto, grafico, gioca con i bambini”. Così amava definirsi Bruno Munari, un artista e designer italiano, tra i massimi protagonisti dell’arte, del design e della grafica del XX secolo.

Munari ha dato contributi fondamentali in diversi campi dell’espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) con una ricerca poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell’infanzia attraverso il gioco e la lettura.

Ed è quest’ultimo aspetto che riguarda direttamente i bambini italiani degli anni ’60 e ’70 perché il Bruno ha dedicato molto del suo estro per aiutare i bambini a giocare in modo intelligente e creativo.

Uno dei suoi primi giochi (1949) è la “Scatola di Architettura” prodotta da Castelletti, che contiene una serie di ‘mattoni’ in legno di pero con i quali si possono costruire molti edifici: case, chiese, castelli autorimesse, alberghi, grattacieli, torri, acquedotti, templi, stazioni, palafitte e così via. Il gioco era ampiamente presente anche ai nostri tempi e dura tuttora.

Nel 1949, ispirato dalla morbidezza e dall’elasticità dell’innovativa gommapiuma, crea il Gatto Meo: un gatto nero con gli occhi gialli realizzato in gommapiuma e fil di ferro, che si anima cambiando posizioni. Nel 1953, arriva la scimmietta Zizì poi ecco il clown Toni, lo scimmione pugilatore Bingo Bango, la giraffa Pasqualina. Questi, invece non li ho mai visti in originale, probabilmente tra fine anni ’60 e primi ’70 la gommapiuma non era più una novità.

Dal 1959 al 1976 – ed è la parte che più ci riguarda perché i giochi e le idee di Munari ci hanno sicuramente coinvolto – progetta svariati giochi per Danese: Proiezioni dirette, ABC, Labirinto, Più e meno, Metti le foglie, Strutture, Trasformazioni, Dillo coi segni, Immagini della realtà.

Munari Più e meno, Danese

Bruno Munari, Più e meno, Danese, Milano 1970

Munari strutture 4

Munari strutture 1

Munari strutture 3

Munari strutture 2

Bruno Munari, G. Belgrano, Trasformazioni e Strutture, Danese, Milano 1972/75

Munari abcconfantasia 2

Munari abcconfantasia 1

Bruno Munari, ABC con fantasia, Danese, Milano 1973

Munari proiezioni

Bruno Munari, Proiezioni dirette, Danese, Milano 1973

Nel 1976 Munari porta tutti la sua esperienza di gioco con i bambini in un programma televisivo, che si chiama ‘La scatola dei giochi’, dove ci mostra come si fa a imparare l’arte giocando con le cose.

La scatola dei giochi sigla

 

Dopo questa esperienza televisiva, nel 1977, a coronamento dell’interesse costante verso il mondo dell’infanzia, nasce il laboratorio per bambini alla Pinacoteca di Brera di Milano.

Nel Laboratorio “si gioca all’arte visiva”, si sperimentano tecniche e regole ricavate dalle opere d’arte di ogni epoca e di ogni luogo, trasformate in giochi: è facendo che si scoprono le qualità diverse dei materiali e le caratteristiche degli strumenti. I bambini imparano giocando.

Il metodo “Giocare con l’arte” (come viene inizialmente chiamato) suscita un enorme interesse, sia in Italia sia all’estero, e i laboratori vengono replicati per oltre 10 anni in altri posti con quello che ora è chiamato “Metodo Bruno Munari(Laboratorio “Giocare con l’arte” al Museo internazionale delle ceramiche di Faenza (1981) – I laboratori per bambini del Kodomo no shiro (Castello dei bambini) di Tokyo (1985) – Giocare con l’arte (1987) Palazzo Reale, Milano – Giocare con la natura (1988) Museo di Storia Naturale, Milano – Giocare con l’arte (1988) Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato).


A chiusura di questa scheda, dedicata prevalentemente al genio di Bruno Munari, metto questo breve racconto da lui scritto, intitolato “I giochi di Bruno” che è molto in linea con lo spirito di animamia. Potrebbe essere un commento inserito da qualcuno di voi.

I giochi di Bruno

Quando ero bambino avevo tanti giocattoli, proprio tanti, così tanti che non sapevo neanche quanti. Avevo dei giocattoli piccolissimi da tenere in tasca, dei giocattoli grandi nei quali potevo anche entrare. Dei giocattoli per giocare da solo e degli altri per giocare con gli amici.
Avevo giocattoli per ogni stagione: per giocare con l’acqua d’estate; per giocare con la neve d’inverno. Ne avevo anche alcuni per giocare con la pioggia, altri per giocare con i raggi di sole.

Non ho mai avuto un giocattolo per la nebbia.

Come dicevo all’inizio, da bambino avevo tanti giocattoli, ma proprio tantissimi.

Il primo fu un gattino vero, vivo, miagolante, trovato nel giardino. Al primo incontro ci guardammo a lungo negli occhi stando fermi a poca distanza uno dall’altro. Poi il gattino venne verso di me e si strofinò a un mio piede.

Scesi subito in cucina a prendere qualcosa da mangiare per il micio e glielo portai di corsa. Lui si avvicinò lentamente al piattino, lo annusò tutto e poi, con calma, cominciò a mangiare. Ogni tanto interrompeva il pasto, alzava il musino e mi guardava; poi riprendeva.

Da quel giorno diventammo molto amici, lui sentiva quando io salivo le scale e mi veniva incontro. Era caldo e morbido e aveva un buon odorino di nido. Tutti i miei amici lo conoscevano. Questo forse fu il giocattolo più completo che abbia mai avuto, così pensavo allora, oggi invece mi viene il sospetto che anche io bambino ero il giocattolo del gatto.

Eravamo contenti tutti e due.

Vicino a casa mia c’era una casa signorile con finiture di lusso. Vi abitava una famiglia che commerciava in articoli superflui e guadagnava molto denaro. C’era anche un bambino della mia età, il quale appena saputa la storia del mio gattino, ne volle uno anche lui, e allora il suo papà che poteva spendere molto, gliene comprò uno. Ma non uno vero e vivo, perché, si sa, gli animali sporcano e poi bisogna curarli, mentre un bel giocattolo costoso era più adatto a mostrare che quella famiglia poetva spendere e che aveva molti soldi. A questo bambino, dunque, arrivò un giorno una scatola molto elegante con nastro dorato, portata da un fattorino in divisa del più grande magazzino di lusso della città vicina. Il bambino aprì la scatola e trovò, in mezzo all’imballaggio, un gattino di latta dipinta, un gattino meccanico, molto bene imitato a prima vista, con una molla da caricare. Si girava una chiavetta sotto la pancia e il gattino muoveva la coda e correva dritto, avendo delle rotelle sotto le zampe. Correva dritto miagolando mao mao mao mao mao mao mao…

Bang! e andava a sbattere contro il muro rovesciandosi con le zampette all’aria. Aveva sempre lo stesso sguardo come se fosse cieco, era freddo e senza pelo, non mangiava, non si nascondeva, per farlo muovere bisognava caricare la molla. Dopo qualche giorno questo freddo e stupido giocattolo venne abbandonato.

Il mio gattino invece era diventato indipendente, qualche giorno spariva e poi ritornava facendo finta di niente. Io non gli ho mai chiesto dove fosse andato. Nessuno lo aveva comperato, era libero, ma aveva simpatia per me e io per lui. Ognuno faceva quello che voleva senza imporre niente all’altro. Mangiava le zucchine bollite, gli piaceva molto il gelato, si arrampicava di corsa sugli alberi, si nascondeva e poi saltava fuori all’improvviso pungendomi un poco con le sue unghiette nascoste. Io avevo ormai imparato il suo linguaggio e avevo capito che quando diceva miaoooo voleva giocare, quando diceva brevemente mao voleva dire ciao, quando diceva mooooo con voce bassa voleva dire lasciami stare adesso. Anche lui capiva le mie parole, andavamo d’accordo insomma. Dalla mia finestra vedevo il gattino meccanico buttato in un angolo del cortile, non faceva nemmeno paura ai topi perché aveva odore di ferro e non di gatto. Forse non è mai piaciuto nemmeno al bambino ricco.

Poi avevo un altro giocattolo: un bastoncino di bambù. Bellissimo e flessibile, lungo circa un metro, sembrava verniciato di verde (era appena stato colto), e si teneva bene in mano; ogni dieci centimetri circa aveva un nodo e all’ultimo nodo in alto avevo legato una cordicella. Era una frusta e mi divertivo a farla schioccare come facevano i carrettieri, dopo un poco l’estremità della cordicella si era consumata ed era diventata come un fiocco. Se legavo questa estremità della cordicella alla estremità in basso del bastoncino di bambù, questo diventava un buon arco sufficientemente flessibile per lanciare le frecce, che erano di un altro tipo di canna con un piccolo peso direzionale in cima.

Potevo slegare di nuovo la cordicella e attaccarle un amo per andare a pescare. Potevo togliere la funicella e avevo così un bastoncino da passeggio che mi serviva per toccare o muovere qualcosa per terra, come una prolunga di un mio dito. Se agitavo velocemente il bastoncino in aria, ne usciva un suono. La sua flessibilità mi suggeriva di farne tanti usi diversi: una fionda, una catapulta, una molla. Dopo un po’ di giorni il verde del bambù era diventato giallo ma non aveva perso il lucido. Un giorno frugando tra le foglie col mio bastoncino di bambù, trovai una piuma d’oca bianca. Una piccola piuma d’oca. Guardandola controluce vedevo i colori dell’iride.

E poi avevo un rametto di sambuco, il sambuco è una pianta che ha, dentro ai rami, un grande midollo elastico. Il ramo è come un tubetto pieno di questo midollo. Si prende un rametto di diametro più piccolo e, spingendolo dentro il ramo più grosso, ne fa uscire il midollo. Il rametto grande diventa così una cerbottana e col midollo di sambuco si possono fare molti giochi.

E poi avevo dei semi di acero, secchi. Questi semi sono fatti come un’ala di insetto, guardandoli contro luce si vedono tutte le nervature, e dalla parte più piccola dell’ala c’è una ingrossatura. Quando cadono dall’alto non cadono dritti come un sasso ma fanno dei giri, cadono girando come un’elica. Si raccolgono tanti semi e si possono lanciare dalla finestra ed è molto bello vedere come cadono, uno alla volta.

In seguito a questa esperienza provai a ritagliare dei piccoli pezzettini di carta con forme diverse per vedere come cadevano e trovai che un rettangolino di carta di circa cinque millimetri per cinque centimetri, leggermente incurvato, se lasciato andare nell’aria comicia a girare e fa una forma illusoria come di caramella e gira e gira e non cade subito ma qualche volta sale più in alto di chi lo ha lanciato e così si possono vedere le correnti di aria calda o il vento che altrimenti non si vedrebbe.

Tutti i miei amici avevano anche loro questi ritagli di carta leggera e andavano assieme in posti larghi dove si potevano lanciare da qualche altura, o dal ponte sul fiume.

E poi avevo, in cortile, un rubinetto che gocciolava. Si vede che la guarnizione era consumata e non chiudeva più bene. Ma il rumore delle gocce era molto interessante, perché non era monotono. Non so perché ma ad ascoltare bene si sentiva che gli intervalli tra una gioccia e l’altra non erano uguali, e anche i suoni della caduta delle gocce non erano sempre gli stessi. Un giorno ho provato a mettere sotto alla goccia un secchio vuoto: toc toc toc toc toc toc toc, poi un foglio di giornale spiegazzato cià cià cià cià cià , poi una padella rovesciata: ten ten ten ten ten ten ten ten, poi feci cadere le gocce in un barattolo di marmellata vuoto: tic tic tic tec tec tec toc toc tuc tuc boc buc tum.

Con alcuni amici cercavamo di cantare delle canzoni inventate sul ritmo delle gocce. Una canzone diceva: pic pac pac pic patapic patapac pitopec pataluc, e si ripeteva con varianti personali. Un’altra canzone inventata da un mio amico che si chiamava Bernardone sporcaccione diceva: pic pic pistolic pistolac pistolec cac pis merdolic. E tutti ridevano.

Un giorno attaccai sotto il rubinetto, con una cordicella, una lunga canna, alla quale avevo bucato tutti i diaframmi con un ferro. L’estremità dela canna che stava sotto il rubinetto era allargata in modo da raccogliere le gocce. La canna sarà stata lunga circa due metri, dopo un po’ di tempo le gocce cominciarono ad uscire dall’altra estremità, il legaccio di corda permetteva di orientare la canna come una lancetta di orologio e così potevo segnare con l’acqua, dei semicerchi sulla terra. In un secondo tempo aggiunsi una seconda canna come prolunga della prima, poi una terza, poi passò un cane di corsa e buttò all’aria tutti i miei progetti.

E poi avevo una cordicella lunga lunga, fatta di tanti pezzi di corde annodati tra loro uno dopo l’altro. La corda aveva una molletta da biancheria attaccata a una estremità, l’altra estremità era attaccata a un chiodo vicino alla finestra del solaio. La molletta pendeva a circa cinquanta centimetri dal piano del cortile. Alla estremità in alto, della corda, era annodato un campanellino. Se qualche amico passava dal mio cortile, che era sempre aperto, poteva tirare la cordina per chiamarmi; oppure se aveva qualcosa da darmi o da farmi vedere lo poteva attaccare alla moletta che pendeva in basso.

Il mio cortile era grande e aperto da un lato, molta gente lo attraversava come scorciatoia per andare da una stradina che stava da una parte del cortile e la strada principale che stava dall’altra parte dell’albergo. Dopo un po’ di tempo i miei amici sapevano della cordicella e della molletta e allora ogni tanto mi trovavo appeso delle cose strane, dei biglietti con scritto dei gentili insulti, una buccia d’arancia, alcune foglie secche (molto belle e diverse: alcune un poco accartocciate come una mano, altre strette e lunghe un poco pelose) una volta trovai appeso una piuma di gallina, un’altra volta una di faraona, grigia a pallini bianchi.

Un giorno trovai una ghianda, un giorno una vecchia scarpa tutta coperta di fango secco, raccolta probabilmente nel fiume. Tenni questa scarpa secca per molto tempo, come un relitto venuto da chissà dove.

E poi avevo un piccolo specchietto rotondo che mi aveva regalato la nonna. Questo specchietto mi serviva molto bene per giocare da solo. Andavo fuori casa al sole, e mettevo lo specchietto in modo che mandasse un raggio nel buio di una stanza attraverso la finestra aperta. Potevo vedere benissimo tutto quello che illuminava. Muovendo questo punto luminoso nella stanza lo feci cadere sopra uno specchio: immediatamente un altro raggio di sole rimbalzò nella stanza e andò a posarsi sul muro di fronte. Questo mi fece molto pensare.

Un altro giorno, prendendo un raggio di sole che era entrato nella stanza, col mio specchietto, lo mandai nella credenza: il punto luminoso colpì un bicchiere di cristallo e vidi tutti i colori dell’arcobaleno.

E poi avevo dei gusci di noce. Chi non ha avuto dei gusci di noce interi, per giocare? Questo guscio è durissimo, tutto di legno di noce come se fosse intagliato. Quando si apre una noce con attenzione senza rompere i due gusci, si scopre che lungo la linea dove combaciano sono finiti proprio bene: tutto il bassorilievo della decorazione del guscio si raccorda con questa linea di contatto e qui il legno diventa liscio per potere combaciare bene. Da una parte ha una punta dall’altra parte una piccola rientranza (dico questo per spiegare a quei bambini di città che non hanno mai visto una noce intera perché la mamma le comperà già sbucciate), (sono gli stessi bambini che, poveretti, non hanno mai visto una mucca e credono che il latte sia un prodotto industriale come la coca cola), (mah!).

Ecco perché si costruiva con i gusci di noce, due tipi principali di giocattoli: uno era la barca e l’altro la tartaruga. Ci sono infatti delle barche che si chiamano “guscio di noce”; non ci sono però delle tartarughe che appartengano alla categoria delle noci, c’è il pettine di tartaruga e c’è il vitello scamosciato, non c’è il camoscio vitellato e nemmeno le scarpe di vitel tonné.

Per fare le barchette si riempiva il guscio di noce con mollica di pane e si infilava uno stecchino verticale come albero sulla barca. Sullo stecchino si infilava un fogliettino di carta curvato come se già ci fosse il vento e poi si andava ai giardini pubblici a varare la barchetta.

Per fare la tartaruga invece si appoggiava il guscio dalla parte piatta su di un cartoncino leggero, poi si disegnava il contorno del guscio sul foglio, si aggiungeva la testa e le zampette e la coda e poi si ritagliava e si incollava la carta sul lato liscio del guscio.

Da ragazzo, una influenza mi costrinse a letto per qualche giorno. Era d’estate la mamma aveva socchiuso le persiane per non fare entrare troppa luce. Un sottile raggio di sole entrava da un forellino della persiana, e io, dal mio letto, potevo seguirlo per tutto il giorno nel suo percorso sui muri e sui mobili. Il movimento del punto luminoso era impercettibile ma osservandolo continuamente potevo vedere i suoi spostamenti, come il disco di luce si trasformava, si allungava o si restringeva secondo l’angolo di incidenza. Venne a trovarmi un amico e lo pregai di portarmi degli oggettini riflettenti come specchietti, carte stagnole, palline dell’albero di natale. Intanto cercai di individuare bene il percorso del punto luminoso e quando l’amico tornò gli feci disporre questi oggettini riflettenti lungo il percorso del sole a distanze diverse e mi addormentai un poco stanco per lo sforzo.

La mattina dopo il sottile raggio di sole entrò nella stanza e cominciò il suo giro sulle pareti. Io lo aspettavo al varco: ecco che si avvicinava a un frammento di stagnola, la tocca, il disco luminoso si disfa in tanti raggi, alcuni colorati, lentamente si trasforma, si allarga poi lentamente si ricompone, torna ad essere il piccolo disco di prima, sta per uscire dalla stagnola, ancora qualche sprazzo di luce, è uscito. Adesso si sposta impercettibilmente e va verso lo specchietto. Lo tocca, rimbalza sulla parete opposta, è più debole, sparisce, esce dallo specchietto e continua il suo giro dove incontrerà altri oggetti che mi fanno vedere altri effetti.
Il giorno dopo ero guarito.

E poi avevo un piccolo elastico di para, molto elastico. A tirarlo e a farlo vibrare emetteva suoni diversi secondo la tensione. Con una piccola scatoletta di fiammiferi svedesi e un rametto secco, costruii uno strumento musicale molto semplice. La scatoletta di legno di pioppo sottile faceva da cassa armonica. Il rametto teneva l’elastico il quale, passando sopra la scatola, appoggiava sopra un ponticello. Avevo osservato molto mio zio Vittorio quando costruiva i suoi violini, e questo era uno strumento a corda elastica che poteva produrre alcune note. Quando ero bambino non c’erano tutte le colle e i nastri adesivi che ci sono adesso, per cui dovevo arrangiarmi con quello che trovavo. Per fortuna che lo zio aveva una buona colla che faceva lui stesso con delle cartilagini animali e non so con cosa d’altro. Quando lo strumento fu pronto, l’elastico si ruppe.

E poi avevo un giocattolo enorme, grandissimo, così grande che cominciai a camminargli sopra per vedere dove finiva, ma dovetti tornare a casa perché veniva sera. In questo enorme giocattolo vidi tantissime cose: insetti e animaletti che andavano affacendati per i loro affari e nemmeno mi vedevano. Alcuni sparivano in piccoli buchi, altri andavano a finire sotto delle pietre…

Trovai tanti fili verdi di erbe, rametti secchi spezzati, foglie dappertutto, fiorellini sparsi. Su questo enorme giocattolo potevo correre e saltare, sdraiarmi o camminare in punta di piedi. Potevo scavare buche o piantare degli stecchi. Finiti i giochi non dovevo metterlo a posto, lui era sempre là che mi aspettava e poi, anche se qualche volta non andavo a trovarlo, lui non si offendeva.

Bruno Munari

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